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| William Bill Ramsey |
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| Southend Hospital |
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| Runwell Hospital |
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| Ed e Lorraine Warren |
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| Bill con Padre McKenna |
Lyle ed Erik Menéndez, i figli del ricco dirigente dell'intrattenimento di Beverly Hills José Menéndez, scioccarono la nazione nel 1989 ...
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| William Bill Ramsey |
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| Southend Hospital |
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| Runwell Hospital |
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| Ed e Lorraine Warren |
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| Bill con Padre McKenna |
In questo capitolo i Warren non si limitano a indagare, vivono sulla propria pelle il prezzo di ogni esorcismo e di ogni rituale. Ed, con la sua fermezza e la protezione che cerca di garantire alla moglie, mostra tutta la tensione di un uomo che lotta contro l'impossibile. Lorraine, con il suo dono medianico, diventa il tramite tra il mondo dei vivi e quello dei dannati, ma ogni visione è un colpo all'anima, un rischio di smarrire sé stessa.
E' questo contrasto tra forza e vulnerabilità a rendere i protagonisti così credibili e vicini allo spettatore. Non sono eroi invincibili, sono due persone che scelgono di affrontare l'oscurità nonostante la paura.
The Conjuring - Il Rito Finale non racconta soltanto di possessioni e rituali, ma del legame indissolubile tra i Warren, costretti, loro malgrado, a dover affrontate una entità soprannaturale legata a un misterioso specchio che infesta la famiglia Smurl (cliccate sul link per leggere la vera storia dalla quale è tratto quest'ultimo capitolo).
In questa occasione il terrore diventa ancora più palpabile perchè ci si immedesima in loro: e fossimo noi a dover scegliere tra proteggere la persona amata o cadere in preda di un'entità demoniaca? E' questo dilemma a rendere il film un'esperienza emotiva, oltre che spaventosa.
Senza Ed e Lorraine, inutile negarlo, la saga non avrebbe lo stesso impatto. La loro figura storica (nel bene e nel male, anche alla luce di rivelazioni che li rendono meno "buoni" di ciò che erano, a quanto pare, in realtà) trasposta su pellicola riesce, anche in quest'ultimo capitolo, a dare un'aura di spettralità e di angoscia perenne, scena dopo scena, dando un degno finale a una saga che si merita di diritto il posto sul podio della cinematografia horror dell'ultimo ventennio.
Dopo L'evocazione - The Conjuring (2013), The Conjuring - Il Caso Enfield (2016) e The Conjuring - Per Ordine del Diavolo (2021), quest'ultimo capitolo mette davvero fine, in tutti i sensi, a un ciclo di storie legate e interconnesse a storie realmente accadute e che, seppure con le dovute differenze legate a scelte registiche, stilistiche e cinematografiche, sono riuscite a raccontare per certi versi uno dei tanti volti del male e dell'orrore puro.
The Conjuring - Il Rito Finale, diretto da Michae Chaves (che dal terzo capitolo prende le redini della saga sostituendo James Wan), riesce a conquistare il pubblico con ciò che è sempre stato il fulcro di ogni capitolo: difendere ciò che si ama a tutti i costi.
Nato nel 1935 in una comunità mormone fondamentalista nello Utah, Ervil LeBaron crebbe in un contesto dove il fanatismo religioso era la norma. Carismatico e manipolatore, utilizzò la dottrina per legittimare ogni atto di violenza, reinterpretando il concetto biblico di "blood atonement" - l'idea che alcuni peccati possano essere espiati solo con il sangue del colpevole.
Molti degli assassinii furono brutali, con colpi di pistola a distanza ravvicinata, agguati notturni vere e proprie cacce all'uomo in più Stati e persino in Messico. LeBaron impartiva ordini diretti, spesso in codice, e si assicurava che i colpevoli fossero giustiziati senza possibilità di redenzione.
Molti di quegli omicidi vennero effettivamente compiuti anche dopo la sua morte in cella, nel 1981, prova dell'inquietante lealtà e del condizionamento psicologico che aveva instillato nei suoi seguaci.
Il caso di Ervil LeBaron resta uno dei più inquietanti esempi di come il fanatismo religioso possa degenerare in violenza sistematica. Dietro la maschera di un profeta, LeBaron agì come un boss criminale, trasformando la fede in uno strumento di controllo e condanna a morte.
Il freddo pungente del 25 dicembre 1929 avvolgeva le colline della Carolina del Nord, mentre le famiglie si stringevano accanto al camino per festeggiare il Natale. Per la comunità rurale di Germanton, però, quella giornata si sarebbe trasformata in un incubo destinato a essere ricordato per generazioni: il brutale massacro della famiglia Lawson.
La mattina di Natale, mentre i vicini preparavano il pranzo delle feste, Lawson uscì di casa armato di fucile. Prima si diresse verso il fienile, dove le figlie Carrie e Maybell, rispettivamente di 12 e 7 anni, stavano giocando. Con precisione glaciale, sparò a entrambe e ne occultò i corpi. Tornato in casa, uccise la moglie Fannie e poi i figli Marie, James e Raymond. Infine, la più piccola, Mary Lou, appena 4 mesi, trovò la morte tra le sue mani.
Il silenzio di quel giorno fu interrotto soltanto da un ultimo colpo di fucile: Charles si tolse la vita nei boschi vicini, lasciando accanto a sé lettere e appunti confusi, incapaci di dare una spiegazione chiara al suo terribile gesto.
La casa dei Lawson divenne meta di curiosi e cacciatori di fantasmi, convinti che gli spiriti della famiglia vagassero ancora tra quelle mura fredde e impregnate di sangue. Negli anni il massacro è stato raccontato in libri, ballate popolari e documentari, mantenendo viva la memoria di una tragedia che, a distanza di quasi un secolo, continua a gelare il sangue.
Nel vasto panorama del cinema horror contemporaneo, Bring Her Back emerge come un'opera intensa e disturbante, capace di trascinare lo spettatore in un vortice di angoscia e mistero. Diretto con mano ferma e visione lucida, il film si distingue non solo per la sua trama inquietante, ma soprattutto per l'atmosfera densa e opprimente che riesce a costruire fin dai primi minuti.
La narrazione si sviluppa lentamente, con un ritmo studiato, quasi ipnotico, che riflette il tormento interiore del protagonista. Ogni scena è permeata da una tensione latente, che cresce fino a esplodere in momento di terrore puro ma mai gratuiti, sempre funzionali alla costruzione di un senso di inevitabilità e decadenza.
Ciò che rende Bring Her Back un horror memorabile è l'abilità con cui il regista - di cui si avverte l'influenza di autori come Ari Aster e Robert Eggers - orchestra suono, luce e composizione dell'immagine per creare un senso costante di disagio. I toni freddi della fotografia le ombre che sembrano vivere di vita propria e una colonna sonora minimalista ma disturbante, contribuiscono a imprimere ogni scena nella memoria dello spettatore.
Pur affondando le sue radici nei canoni del genere horror, Bring Her Back è anche un'opera profondamente umana. Il terrore non nasce solo dagli elementi soprannaturali, ma dall'incapacità di lasciare andare, dal bisogno disperato di riportare indietro ciò che irrimediabilmente perduto. Il film si interroga con crudezza e delicatezza insieme, su quanto siamo disposti a sacrificare pur di non accettare la realtà.
Bring Her Back non è un horror per tutti. Non cerca scorciatoie, non punta agli spaventi facili, è un film che si insinua sotto la pelle, che lavora con la psicologia più che con il sangue, e che lascia lo spettatore con una domanda inquietante: e se chiami davvero qualcuno dall'aldilà, sei sicuro che sarà ancora la persona che ricordavi?
In un (fin troppo lungo) periodo in cui gli horror puntano tutto su dinamiche scontate e prevedibili, questo film rappresenta una piccola perla insieme a Talk to me - dello stesso regista - di cui Bring Her Back sembra esserne l'erede spirituale. Consigliato.
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| Alcune delle vittime accertate di Ted Bundy |
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| Tratto dal libro di Elizabeth Kendall(nome d'arte) |
Jesperson nacque il 6 aprile del 1955 a Chilliwack, in Canada, terzo figlio di cinque, tra fratelli e sorelle. Il padre era un tipo violento, era solito punirlo con cinghiate e scosse elettriche ogni volta che si trovava dei guai e Keith, seppur timido, nei guai ci si trovava spesso, sia a scuola che in casa, tra la sua irrefrenabile voglia di uccidere animali e le liti in cui rimaneva coinvolto nelle varie scuole che frequentava, per seguire i vari spostamenti del padre per via del suo lavoro.
Diplomatosi al liceo nel 1973, non frequentò il college perchè il padre era contrario, ma trovò lavoro come camionista, anche per mantenere la moglie Rose (sposata nel 1975) e i suoi tre figli, un maschio e due femmine. Il rapporto non durò molto, quando la moglie scoprì i tradimenti del marito chiese il divorzio e andò a vivere, con i figli, dai suoi genitori; era il 1990.
All'età di 35 anni era alto più di due metri e pesava oltre i centodieci chili, fu allora che comprese che avrebbe potuto uccidere una persona con relativa facilità, grazie alla sua superiorità fisica. La sua prima vittima fu Taunja Bennett, conosciuta in un bar di Portland. La portò a casa sua, la strangolò e occultò il cadavere. Per sua fortuna, Laverne Pavlinac, una donna in cerca di una scusa per porre fine alla relazione tossica che aveva con il fidanzato, si prese la responsabilità dell'omicidio, incolpando il fidanzato per averla costretta a compiere un tale gesto, Furono entrambi arrestati e processati.
Nel 1992 Jesperson tornò alla carica, questa volta in California, strangolando fino alla morte una giovane donna di Santa Nella il cui nome, a sua detta, era "Carla" o "Cindy". Nel 1994 fu la volta di Susanne, uccisa a Crestview, in Florida, stesse modalità.
Nonostante gli omicidi, solo nel 1995 la polizia iniziò a concentrare le attenzioni su di lui e dopo l'ennesimo omicidio riuscirono a incastrarlo e arrestarlo. La vittima era Julie Winningham, ma Jesperson cominciò a confessare non solo gli altri omicidi per cui altri si erano addossati la colpa o per i quali non era ancora stato trovato un colpevole, ma arrivò a dichiarare che le vittime fossero addirittura 185. Tale dichiarazione fu sottostimata dalla polizia, che ritenne ben più veritiero un totale di 8 vittime per mano di Happy Face Killer.
Condannato a tre ergastoli, nel 2010 fu incriminato per un altro omicidio, aggiungendo un quarto ergastolo alla sua pena, che sta scontando nel penitenziario di Riverside, in California.
Nel 2008 la figlia di Keith Hunter Jesperson, Melissa G. Moore, pubblicò un libro sul padre e su ciò che aveva vissuto con lui quando lei era alle elementari. Nei giorni che passavano in casa insieme, lo vedeva catturare, torturare e uccidere gattini e piccoli roditori, realizzando quanto stesse prendendo piede sempre più prepotentemente il lato sadico dell'uomo, ma non riuscendo ancora a concepire, essendo una bambina, fin dove si sarebbe spinto.
Nel 2014 è uscito un film su Happy Face Killer interpretato dal bravissimo attore David Arquette e diretto da Rick Bota.
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Il film ne segue a grandi linee la trama, pur con delle variazioni che anche a chi ha già letto la storia non saprà di "già vista" più del necessario. Ruoterà infatti intorno ai gemelli Hal e Bill che, frugando nella cantina del padre trovano la scimmietta che una volta azionata, beh, già sapete, no?
Alla regia abbiamo Oz Perkins, figlio di Anthony Perkins, l'attore del film Psycho, che oltre ad aver partecipato come attore nel seguito del film interpretato dal padre, come regista ha comunque un bagaglio piuttosto esiguo, dato che ha diretto solo cinque film, l'ultimo dei quali (escluso The Monkey) è il controverso ma efficace Longlegs del 2024, con un formidabile Nicholas Cage nei panni del cattivo di turno.
Sebbene una trama del genere difficilmente potrà portare qualcosa di totalmente nuovo per quanto riguarda la sceneggiatura o eventuali colpi di scena, sicuramente un qualcosa ispirato a uno dei racconti del re dell'orrore non passa inosservato. Negli Stati Uniti l'accoglienza è stata un "ni", ma chissà che in Italia non possa incontrare terreno più fertile in quanto a incassi e spettatori amanti del genere.
Voi lo andrete a vedere?